mercoledì 3 giugno 2020

Avventura del Paporco


La Maestra di Alice mi ha chiesto di registrare una storia da raccontare ai compagni di scuola. Ho scritto e raccontato 

Quando ero piccolo, spesso passavo una parte delle vacanze estive in campagna dai miei nonni; il Nonno G. e la Nonna P. avevano una cascina nella Bassa Lomellina, al confine con il Piemonte e vicino, ma veramente vicino, al fiume Po.
Il paese si chiamava e si chiama tutt'oggi, G.: era un paese piccolissimo e si diceva avere più galline che abitanti. Era immerso nella campagna dove potevi percorrere lunghe distanze senza incontrare qualcuno.
Nella cascina, i miei nonni allevavano polli, anitre e tacchini, coltivavano un orto con un frutteto oltre ad arricchirsi la vista con un magnifico giardino ricco di fiori. Una grande aia al centro della cascina permetteva a me e mia sorella C. di correre, girare in bicicletta o disegnare con i gessetti, quando non era coperta dal mais disteso sul cemento per essere essiccato dal sole. Allora, l’abbagliante bianco della superficie dell’aia, si trasformava in un gigantesco mare arancione fatto di chicchi di granoturco dove io e mia sorella giocavamo nei modi più impensati.
Un giorno di luglio venne a trovarci mio Zio S. e i miei cuginetti A. e N. e decidemmo visto che faceva molto caldo di andare al fiume per fare il bagno. Beninteso, non si fa il bagno nel Po: il fiume è molto grande e con una corrente molto forte, mio zio intendeva dirci di andare a nuotare in una lanca, che sono delle anse, delle pieghe del fiume che si formano quando il Po si ingrossa in primavera e autunno e poi di trasformano in stagni o laghetti.
Tutti e cinque quindi siamo usciti dalla cascina e a piedi ci siamo diretti verso il fiume: faceva molto caldo e in giro non c’era anima viva: campi di mais, di grano, di riso e, pensate un po', anche di tabacco. Abbandonammo la stradina sterrata, superammo l’argine ma Il sole era molto forte e le uniche zone d’ombra erano dei pioppeti e delle macchie isolate per lo più di piante selvatiche come le acacie e i sambuchi.
Avevamo appena lasciato un boschetto di salici e eravamo scesi nel letto abbandonato del fiume, la nostra sete era diventata insopportabile, quando mio zio ci fece notare una cosa in terra: alcuni piccoli fori sul terreno delle dimensioni di un tappo di bottiglia formavano una pozza di acqua limpidissima. Vidi mio zio che appoggiava la bocca all’acqua e ne beveva. Subito anche noi con circospezione e cautela sfiorammo l’acqua con le labbra: era freddissima ma… buona! E dissetante, ci riempimmo la pancia fino a scoppiare. Mio zio ci disse che era una risorgiva ed era una piccola fontana naturale che arrivava direttamente dalle montagne passando sottoterra sotto la pianura padana. Piu di duecento chilometri lontano.
Finalmente raggiungemmo questo piccolo laghetto, ci spogliammo e ci buttammo in questa acqua calda e limacciosa: non ci pensammo nemmeno per un momento a storcere il naso, abituati, da bambini di città, all’acqua limpida ma che sa di cloro, della piscina. Ci buttammo subito in acqua e iniziammo a giocare, le rive inoltre erano a volte di sabbia finissima, a volte di sassi e ghiaia; un piccolo ruscello divenne un enorme fiume da sbarrare con una diga costruita da noi.
Mentre ci prendevamo una pausa facendo merenda, la nostra attenzione fu attratta da nostro zio che sembrava cercare qualcosa vicino ad un albero caduto nell’acqua. Vedevamo che era immerso nell’acqua e si muoveva come un felino a caccia, immobile e silenzioso. Ad un certo punto ci fece un cenno di avvicinarsi in silenzio. Lentamente, come coccodrilli, nuotando con solo mezza testa fuori dall’acqua ci avvicinammo a questo albero. Era un faggio: era cresciuto sulla sponda ma il terreno aveva ceduto il tronco si era piegato e parte delle radici e dei rami era finito nell’acqua. Mio zio ci disse di parlare sottovoce e ci disse: “è pieno di pesci, venite che vi insegno a tanare”. Avevamo scoperto una tana di pesci. Ci disse di infilare le mani lentamente tra le radici e tra i rami, muovendo le dita leggermente e non appena sentivamo un pesce, dovevamo sfiorarlo delicatamente avvicinando le mani e poi velocissimi afferrarlo e buttarlo sulla spiaggia.
Noi increduli lo guardammo, ma lui dopo pochi attimi in cui sembrava essere completamente immobile, con uno scatto estraeva le mani e vedemmo che lanciava sulla spiaggia un pesce. Subito ci provai e ma sfuggivano, scivolavano, scappavano. Poi ad un certo punto, forse per l’istinto del predatore, ho sentito muoversi qualcosa di grosso tra le dita e ho afferrato qualcosa e senza pensarci l’ho gettato sulla spiaggia. Era una piccola carpa. Il vero divertimento non era pescare i pesci, ma poter prendere i pesci con le mani: incredibile, non mai avrei pensato di poterlo fare.
E poi misi ancora le mani nella tana e presi, pericolosissimo, un pesce gatto e, anche lui, finì sulla spiaggia, e poi un'altra piccola carpa e poi altri pesci di cui non conoscevo neanche il nome. Uno dopo l’altro, riuscivamo ad afferrarli. Dopo un po', dovemmo tornare a casa, un po' perché iniziava a tramontare il sole un po'’ perché i pesci erano scappati.
Ci incamminammo verso casa con lo zaino pieno di pesci, almeno tre o quattro chili e, passando da un boschetto di pioppi, feci anche in tempo a rincorrere e catturare una rana. Era una raganella di San Martino, di colore verde brillante, bellissima. Mio zio mi disse di lasciarla andare perché, per oggi, avevamo preso bottino a sufficienza. 
Ci disse: “La prossima volta andiamo a pescare le rane”.
Ma questa, cari bambini, è un’altra storia.




3 commenti:

  1. Bellissimo racconto, mi ha incantato.
    Ricordi stupendi.

    Moz-

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    1. bello anche pescare con le mani. pensavo succedesse solo nei film

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    2. Più che altro può essere viscido. Non pesco manco con la canna quindi non so :p

      Moz-

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