La Maestra di Alice mi ha chiesto di registrare una storia da raccontare ai compagni di scuola. Ho scritto e raccontato
Quando ero piccolo, spesso passavo una parte delle vacanze
estive in campagna dai miei nonni; il Nonno G. e la Nonna P. avevano una
cascina nella Bassa Lomellina, al confine con il Piemonte e vicino, ma
veramente vicino, al fiume Po.
Il paese si chiamava e si chiama tutt'oggi, G.: era
un paese piccolissimo e si diceva avere più galline che abitanti. Era immerso
nella campagna dove potevi percorrere lunghe distanze senza incontrare
qualcuno.
Nella cascina, i miei nonni allevavano polli, anitre e
tacchini, coltivavano un orto con un frutteto oltre ad arricchirsi la vista con
un magnifico giardino ricco di fiori. Una grande aia al centro della cascina
permetteva a me e mia sorella C. di correre, girare in bicicletta o
disegnare con i gessetti, quando non era coperta dal mais disteso sul cemento
per essere essiccato dal sole. Allora, l’abbagliante bianco della superficie
dell’aia, si trasformava in un gigantesco mare arancione fatto di chicchi di
granoturco dove io e mia sorella giocavamo nei modi più impensati.
Un giorno di luglio venne a trovarci mio Zio S. e i
miei cuginetti A. e N. e decidemmo visto che faceva molto caldo di
andare al fiume per fare il bagno. Beninteso, non si fa il bagno nel Po: il fiume
è molto grande e con una corrente molto forte, mio zio intendeva dirci di
andare a nuotare in una lanca, che sono delle anse, delle pieghe del fiume che
si formano quando il Po si ingrossa in primavera e autunno e poi di trasformano
in stagni o laghetti.
Tutti e cinque quindi siamo usciti dalla cascina e a piedi
ci siamo diretti verso il fiume: faceva molto caldo e in giro non c’era anima
viva: campi di mais, di grano, di riso e, pensate un po', anche di tabacco. Abbandonammo
la stradina sterrata, superammo l’argine ma Il sole era molto forte e le uniche
zone d’ombra erano dei pioppeti e delle macchie isolate per lo più di piante
selvatiche come le acacie e i sambuchi.
Avevamo appena lasciato un boschetto di salici e eravamo
scesi nel letto abbandonato del fiume, la nostra sete era diventata
insopportabile, quando mio zio ci fece notare una cosa in terra: alcuni piccoli
fori sul terreno delle dimensioni di un tappo di bottiglia formavano una pozza
di acqua limpidissima. Vidi mio zio che appoggiava la bocca all’acqua e ne
beveva. Subito anche noi con circospezione e cautela sfiorammo l’acqua con le
labbra: era freddissima ma… buona! E dissetante, ci riempimmo la pancia fino a
scoppiare. Mio zio ci disse che era una risorgiva ed era una piccola fontana naturale
che arrivava direttamente dalle montagne passando sottoterra sotto la pianura
padana. Piu di duecento chilometri lontano.
Finalmente raggiungemmo questo piccolo laghetto, ci
spogliammo e ci buttammo in questa acqua calda e limacciosa: non ci pensammo
nemmeno per un momento a storcere il naso, abituati, da bambini di città,
all’acqua limpida ma che sa di cloro, della piscina. Ci buttammo subito in
acqua e iniziammo a giocare, le rive inoltre erano a volte di sabbia finissima,
a volte di sassi e ghiaia; un piccolo ruscello divenne un enorme fiume da
sbarrare con una diga costruita da noi.
Mentre ci prendevamo una pausa facendo merenda, la nostra
attenzione fu attratta da nostro zio che sembrava cercare qualcosa vicino ad un
albero caduto nell’acqua. Vedevamo che era immerso nell’acqua e si muoveva come
un felino a caccia, immobile e silenzioso. Ad un certo punto ci fece un cenno
di avvicinarsi in silenzio. Lentamente, come coccodrilli, nuotando con solo
mezza testa fuori dall’acqua ci avvicinammo a questo albero. Era un faggio: era
cresciuto sulla sponda ma il terreno aveva ceduto il tronco si era piegato e
parte delle radici e dei rami era finito nell’acqua. Mio zio ci disse di
parlare sottovoce e ci disse: “è pieno di pesci, venite che vi insegno a tanare”.
Avevamo scoperto una tana di pesci. Ci disse di infilare le mani lentamente tra
le radici e tra i rami, muovendo le dita leggermente e non appena sentivamo un
pesce, dovevamo sfiorarlo delicatamente avvicinando le mani e poi velocissimi
afferrarlo e buttarlo sulla spiaggia.
Noi increduli lo guardammo, ma lui dopo pochi attimi in cui
sembrava essere completamente immobile, con uno scatto estraeva le mani e
vedemmo che lanciava sulla spiaggia un pesce. Subito ci provai e ma sfuggivano,
scivolavano, scappavano. Poi ad un certo punto, forse per l’istinto del
predatore, ho sentito muoversi qualcosa di grosso tra le dita e ho afferrato
qualcosa e senza pensarci l’ho gettato sulla spiaggia. Era una piccola carpa. Il
vero divertimento non era pescare i pesci, ma poter prendere i pesci con le
mani: incredibile, non mai avrei pensato di poterlo fare.
E poi misi ancora le mani nella tana e presi,
pericolosissimo, un pesce gatto e, anche lui, finì sulla spiaggia, e poi
un'altra piccola carpa e poi altri pesci di cui non conoscevo neanche il nome.
Uno dopo l’altro, riuscivamo ad afferrarli. Dopo un po', dovemmo tornare a
casa, un po' perché iniziava a tramontare il sole un po'’ perché i pesci erano
scappati.
Ci incamminammo verso casa con lo zaino pieno di pesci, almeno
tre o quattro chili e, passando da un boschetto di pioppi, feci anche in tempo
a rincorrere e catturare una rana. Era una raganella di San Martino, di colore
verde brillante, bellissima. Mio zio mi disse di lasciarla andare perché, per
oggi, avevamo preso bottino a sufficienza.
Ci disse: “La prossima volta andiamo a pescare le rane”.
Ma questa, cari bambini, è un’altra storia.